9 settembre 2014 – To divest or not to divest, questo è il dilemma. Parafrasando l’immortale espressione, è di questo che soprattutto si parla negli ultimi tempi nel mondo della finanza socialmente responsabile (Sri). Una sorta di ritorno di fiamma, se si pensa che la finanza etica degli albori – allora si chiamava quasi esclusivamente così – considerava l’opzione del disinvestimento, o exit, come una delle principali, se non la principale, per veicolare il proprio messaggio. Per dire cioè che la finanza si poteva usare per costruire un mondo migliore: “investing for good” o “investing for a better world”, insomma, come è usa dire la stessa Amy Domini, “signora” della finanza Sri nel mondo.
Divestment, nello Sri, significa uscire da un investimento quando esso non risponde più ai requisiti socially responsible prefissati. Esattamente il contrario dell’engagement, che in tali situazioni prevede che si provi ad aprire un confronto con le società investite.
Se sia più efficace disinvestire o impegnarsi nell’engagement, per incidere sui comportamenti di un’azienda, rimane questione aperta. Fatto sta che dopo anni nei quali si è molto scritto e parlato di engagement, il divestment sta tornando prepotentemente di moda. In particolare per una grande campagna di divestment che sta interessando gli investitori responsabili di mezzo mondo. E non solo.
Si tratta della campagna per il fossil fuel divestment. Principale promotore è il movimento 350.org, che nel nome fa riferimento al livello di Co2 in atmosfera – 350 parti per milione – che secondo gli scienziati dovremmo raggiungere, abbassando l’attuale, per non superare i 2° C di innalzamento di temperatura media sul pianeta.
Ma perché disinvestire? Semplice: perché per chi ha a cuore la costruzione di un modello di sviluppo sostenibile, e prim’ancora la salvaguardia del pianeta (leggasi climate change, emissioni di Co2 et similia), investire in energie fossili è un problema. Il disinvestimento da società quotate attive nel settore delle energie fossili (insomma, petrolio, carbone, gas naturale) diventa così un modo per provare ad accelerare la transizione verso lo sviluppo sostenibile.
Analisi e opinioni pro e contro si sprecano. Oscillanti tra due catastrofismi: per i “contro”, se si comincia col togliere ex abrupto risorse a chi comunque, oggi, garantisce buona parte dell’energia alla collettività, si finisce per azzoppare un’economia che ha già i suoi bei problemi. Per i “pro”, invece, se non si fa qualcosa subito per velocizzare la transizione verso un mondo più sostenibile, ad esempio con uno switch di risorse appunto tra energie fossili e rinnovabili, si finisce per azzoppare definitivamente il pianeta. Il che, evidentemente, è molto peggio.
Il movimento per il fossil fuel divestment, in ogni caso, è in continua, rapida espansione. A farlo decollare sono state fra gli altri molte università statunitensi, che hanno annunciato di voler uscire dagli investimenti nei fossil fuel. Cosa tra l’altro né semplice né indolore, dato che spesso si tratta di colossi dei listini, che finiscono un po’ in tutti i portafogli d’investimento e fanno performance. Il movimento ha fatto presa soprattutto sui giovani, gli studenti universitari appassionati di ambiente e sostenibilità, che dal basso hanno spinto le proprie università a prendere posizioni chiare sull’argomento.
Dagli Stati Uniti all’Australia il passo è breve, nell’era del web e dei social network, e almeno per quanto riguarda lo scambio di informazioni. E allora è proprio in Australia che è in programma per il 18 ottobre quello che si annuncia come il più grande evento di massa dedicato al fossil fuel divestment (almeno in quel continente). Si inviteranno gli australiani ad andare presso le banche dove hanno i loro soldi (nel mirino ci sono Anz, Commonwealth Bank, Nab, Westpac) per chiudere pubblicamente i loro conti correnti nel caso in cui quelle non accettino di smettere di finanziare il business dei fossil fuel. Una “call to action” che con ogni probabilità sarà rilanciata a raffica sui social network per diventare virale e raggiungere ogni angolo del pianeta, o quasi.
Più o meno la stessa cosa è in procinto di essere organizzata a breve a Londra da Move your money, anch’esso un grande movimento popolare nato sulle ceneri dell’infinita serie di scandali finanziari made in Uk. Che ha il suo alter ego italiano nella campagna Non con i miei soldi, promossa da Banca Popolare Etica e dalla Fondazione Culturale Responsabilità Etica.
In senso stretto, l’appuntamento del 18 ottobre in Australia non è un’azione di divestment puro, anche se il motivo alla base è quello. Si può definire un’iniziativa “diversamente divestment”, che si rivolge ai correntisti e non agli azionisti. Su quale tipo di divestment sia più efficace si può discutere. Ma lo switch dei conti correnti probabilmente è ancora più temuto dalle banche, perché quando si perde un’azionista (che vende) un altro ne arriva (che compra), ma quando si perde un correntista, magari fidelizzato, non è affatto detto che sarà rimpiazzato.
Quante persone si muoveranno il 18 ottobre? Che messaggio arriverà alle banche? Sapranno ascoltarlo? L’evento farà scuola, sarà emulato? Quello che si può ragionevolmente prevedere è che potrebbe accadere qualcosa di simile a quanto avvenne a fine 2011 a Bank of America (che di recente ha pagato la multa più salata della storia) e ad altre big banks a stelle e strisce sull’onda del “Bank transfer day”: lo spostamento di centinaia di migliaia di correntisti verso community banks e credit unions. Certo, allora si era a poche settimane dallo scoppio di Occupy Wall Street (di cui il prossimo 17 settembre ricorre il terzo anniversario), ma il sentiment verso banche e finanza non è che sia cambiato di molto, anzi.
Visto, però, che anche tra Australia e Italia nell’era dei social network la distanza si copre nello spazio di un clic o di un touch, la domanda da porsi alle nostre latitudini è piuttosto un’altra: a quando un fossil fuel divestment day made in Italy? Cercasi coalizione di risparmi-attori (o di studenti universitari) per organizzarlo.
Andrea Di Turi
A cura di ETicaNews