10 ottobre 2013 – Può un Paese leader nella sostenibilità annunciare la fine del welfare state? Sì, se ti chiami Olanda e hai come sovrano Guglielmo Alessandro che nel suo discorso in Parlamento in occasione dell’approvazione del bilancio statale 2014 ha pronunciato le seguenti parole: «Il classico welfare state, quello sviluppatosi nella seconda metà del ventesimo secolo, ha portato ad accordi che sono insostenibili nella loro forma attuale». Fermi tutti, dice il re, bisogna stringere i cordoni della borsa. Così il primo ministro Mark Rutte, da sempre vicino all’austerità targata Merkel tanto da criticare i paesi mediterranei, è ora preoccupato per lo sforamento del rapporto deficit/Pil oltre il 3%, limite imposto da Bruxelles, che tanti mal di testa sta facendo venire anche in Italia. Ecco che per abbattere quel 3,3% il governo ha annunciato tagli al welfare per 6 miliardi. Come se non bastasse, l’Istituto nazionale di statistica olandese ha certificato che in agosto il numero dei senza lavoro è salito al 7% dal 6,8 di giugno, mentre i consumi nel secondo trimestre sono in diminuzione del 2,4% su base annua. Dati alla mano, è logico pensare che togliendo ai cittadini forme di assistenza proprio in un momento dove faticano a respirare, può avere effetti devastanti. La situazione è delicata ma guai a sottovalutare gli olandesi che possono sempre contare sulla forza dell’azione di Csr delle proprie multinazionali.
Con circa un quinto del Paese sotto il livello del mare, gli abitanti dei Paesi Bassi erano abituati a continue inondazioni. Questo fino a quando intorno al 1600 non si rimboccarono le maniche e costruirono i famosi polder, un tratto di mare controllato artificialmente attraverso dighe e sistemi di drenaggio dell’acqua. Affrontare insieme un nemico comune ha permesso di sviluppare una forte attitudine all’aiuto reciproco. Lo pensa Ton Büchner, amministratore delegato e presidente del cda di AkzoNobel, il big olandese delle vernici: «Ci vollero tantissime persone per permetterci di avere i piedi asciutti». Questa cooperazione allargata, si è tradotta in un sistema “multi-stakeholder” molto in anticipo rispetto al debutto delle tematiche sostenibili. Già negli anni 80-90, il governo sviluppava strategie ambientali a lungo termine, e lo faceva collaborando con le imprese. Una tendenza certificata dalla professoressa Jacqueline Cramer, direttore dell’Utrecht Sustainability Institute ed ex ministro dell’ambiente: «Più che in altri paesi, qui il rapporto tra governo e mondo produttivo è importante per stabilire gli impegni delle aziende stesse». Un esempio di quanto sia fondamentale da queste parti la condivisione di idee, è il Dutch Sustainable Growth Coalition che riunisce gli amministratori delegati delle otto maggiori società olandesi (Akzo Nobel, DSM, FrieslandCampina, Heineken, KLM, Philips, Shell, Unilever), con lo scopo di realizzare una partnership per lo sviluppo sostenibile. Non è finita qui, perché il ricordo delle inondazioni ha lasciato negli olandesi il rispetto per la natura. Ecco spiegato il Green Funds Scheme, progetto lanciato dal governo olandese nel 1995 per incentivare i privati a finanziare iniziative “verdi”. Il sistema si fonda su condizioni fiscali favorevoli: plusvalenze esentasse per investimenti nei fondi “green” superiori a 55000 euro, o con aliquota ridotta se l’importo è inferiore. I fondi sono gestiti dalle banche che prestano il denaro chiedendo interessi inferiori dell’1% rispetto al tasso corrente. Grazie a questo sistema, tra il 1995 e il 2009 sono stati sostenuti 6066 progetti. Nel 2010 il governo ha quantificato in 6 miliardi di euro l’ammontare degli investimenti “verdi” a fronte di appena 150 milioni di euro che lo stato ha sborsato per gli incentivi fiscali.
Considerata l’attenzione che i Paesi Bassi hanno riservato alle tematiche sostenibili già nella seconda metà del secolo scorso, non c’è da stupirsi se questo piccolo Stato conta due aziende considerate leader Csr. Sono AkzoNobel e la franco olandese Air France-Klm scelte dal Dow Jones Sustainability Index e dalla società svizzera RobecoSam, come le big nei settori “materials” la prima e “transportation” la seconda. In particolare, di AkzoNobel sorprende la permanenza sul podio dal lontano 2007 e il punteggio ottenuto quest’anno: 93 su 100. Da non sottovalutare, considerato il settore delicato in cui opera, che i “selezionatori” hanno lodato l’impegno di AkzoNobel nel sviluppare sistemi in grado di ridurre le emissioni oltre ad aver adottato processi chimici “green” e un’efficiente gestione dei rifiuti. Dalle vernici all’elettronica: anche Philips è stata confermata nel Dow Jones Sustainability Index, segnando punteggi elevati nel rapporto con i clienti (100 su 100) e nella lotta ai cambiamenti climatici (99 su 100). In totale, Philips ha raccolto 91 punti su 100.
E l’Italia? ETicaNews ha già affrontato l’argomento, sottolineando come tutte le italiane siano state confermate nel paniere del Dow Jones Sustainability Index, ad eccezione del Monte dei Paschi. Nonostante il bilancio positivo delle aziende tricolori, bisognerebbe prendere spunto dall’Olanda e chiedersi se, forse, è possibile realizzare in Italia una Csr che parta dal basso, attraverso un sentimento di condivisione e rispetto reciproco per gli altrui interessi. I Paesi Bassi dimostrano come sia possibile trasmettere la sostenibilità dai cittadini su fino alle multinazionali. Probabilmente ciò che manca agli italiani è l’unione, complice uno stato ancora giovane, che ha trovato da appena 150 anni l’unità. Pochi rispetto al 1648, anno dell’indipendenza olandese.
Paolo Ballanti
A cura di ETicaNews