17 dicembre 2014 – Il contesto era uno dei più prestigiosi che si potesse immaginare, vale a dire il Forum su business e human rights organizzato dalle Nazioni Unite a Ginevra ai primi di dicembre. In questa cornice, è stato lanciato un ambizioso progetto probabilmente destinato a rappresentare uno spartiacque nell’ambito della responsabilità sociale d’impresa e della sua valutazione a fini d’investimento, ovviamente responsabile (Sri).
Il nome in codice del progetto è Chrb, che sta per Corporate human rights benchmark. Si tratta della prima iniziativa su vasta scala che si propone di stilare una classifica delle maggiori imprese del mondo in base alle loro performance nella promozione e tutela dei diritti umani.
L’idea è quella di costituire un punto di riferimento a livello mondiale, un benchmark appunto, trasparente, credibile e pubblicamente accessibile, che consenta di mettere a confronto le imprese sul delicato e fondamentale terreno dei diritti umani, che da sempre è considerato uno dei temi prioritari in fatto di sostenibilità riferita alle pratiche di business. Il tutto a beneficio dei cittadini, dei consumatori e degli investitori, delle organizzazioni della società civile che operano in questo campo e delle stesse istituzioni, ma prima di ogni altra cosa a beneficio delle imprese, per stimolarle a un miglioramento continuo. Un modo, insomma, per alzare l’asticella a livello mondiale per quanto riguarda l’impatto dell’attività d’impresa sui diritti umani.
Di grande prestigio internazionale sono anche i partner che hanno promosso il progetto: innanzi tutto il Business and human rights Resource Centre, una Ong (organizzazione non governativa) di riconosciuta autorevolezza nel monitoraggio e diffusione di informazioni su questi temi, e il think tank The Institute for human rights and business. Ma poi anche alcuni pezzi da novanta della finanza Sri europea a mondiale, a testimonianza del fatto che il punto di vista degli investitori ha un peso specifico rilevante nel progetto, insomma che i diritti umani sono nel mirino dei grandi player dell’investimento sostenibile e responsabile: ci sono i britannici di Aviva Investors, gli olandesi di Vbdo (il Sif-Sustainable investment forum olandese, la cui attività è analoga a quella del Forum per la finanza sostenibile in Italia), gli statunitensi di Calvert Investments, fra i pionieri dello Sri, e di nuovo il Regno Unito con Eiris, uno dei più accreditati centri al mondo per la ricerca e valutazione della sostenibilità a fini d’investimento (spesso indicati con il termine di agenzie di rating etico).
Il progetto, a cui è dedicata un’ampia sezione sul sito web di Business and human rights Resource Centre, prenderà inizialmente in considerazione 500 fra le maggiori imprese al mondo, individuate all’interno di quattro macrosettori ritenuti d’importanza-chiave nelle dinamiche economiche: l’agricoltura, l’information and communication technology (Ict), l’industria estrattiva e quella dell’abbigliamento. Settori, soprattutto, nei quali rispetto ad altri il tema dei diritti umani è un fattore di rilevanza anche maggiore, specie se letto nell’ottica della globalizzazione delle produzioni e dell’utilizzo della forza lavoro: basti ricordare per tutti, dato che l’elenco sarebbe lungo, la tragedia del 24 aprile 2013 al Rana Plaza, a Dacca (Bangladesh), il palazzo che crollò causando oltre mille vittime fra le persone che lavoravano in condizioni a dir poco improponibili nelle fabbriche tessili ospitate nell’edificio.
L’obiettivo dei promotori del progetto tuttavia non è quello di stigmatizzare le imprese che si rendono protagoniste dei casi più gravi di mancato rispetto anche dei più fondamentali diritti umani, anche perché c’è chi lo fa già egregiamente. Semmai il contrario: mettendo in evidenza i casi di buone o best practice, l’obiettivo è far capire alle imprese che la concorrenza e la capacità di eccellere sul mercato si giocano sempre più anche su questi fattori.
In altre parole, che la tutela dei diritti umani non solo è cosa buona e giusta ma è anche un fattore critico di successo, per usare il gergo degli aziendalisti, in un mondo in cui ad avere uno sguardo globale non sono solo le aziende ma anche i consumatori critici e responsabili e gli investitori etici e sostenibili. Per cui sono sempre di più quelli che in ogni loro atto di acquisto o investimento considerano non solo la convenienza economica o le aspettative di rendimento, ma anche fattori reputazionali, etici, di sostenibilità. Anche perché è sempre più evidente che questi aspetti, in un modello di sviluppo che intende essere autenticamente sostenibile, non possono che andare di pari passo.
Andrea Di Turi
A cura di ETicaNews