16 giugno 2014 – «Non ero mai stata fuori dall’Uganda. Non avevo mai avuto il passaporto. Non ero mai salita su un aereo. Non ero mai salita nemmeno su un treno». È un martedì pomeriggio di un 10 giugno dal caldo infernale, di quelli che davvero ti chiedi perché uscire. Sono le 17 quando sul palco del teatro Anteo, a Milano, iniziano a salire quattro ragazzi (tutti al massimo trent’anni di età), dai tratti evidentemente non europei. La prima viene, appunto, dall’Uganda. O meglio, da un posto dell’Uganda dove non c’è acqua corrente, l’elettricità è random, le strade sono polvere e così via. È commossa, ripete thank you un numero incalcolabile di volte. Racconta, si commuove e ripete: «Sono così orgogliosa di essere qui e di fare questo per il mio Paese. Thank you.. thank you.. thank you».
Ha acceso la scintilla che terrà inchiodate all’Anteo oltre 150 persone per le due ore e mezza successive.
È stato questo, l’incontro organizzato martedì scorso da Opes Impact Fund per presentare i risultati del suo primo anno di attività: quattro storie imprenditoriali nelle quali il fondo guidato dalla presidente Elena Casolari ha investito risorse. L’incontro è stato le scintille che hanno brillato negli occhi dei quattro imprenditori. L’incontro è stato gli occhi spalancati, e a loro volta accesi, delle persone tra il pubblico che pensavano di averne viste tante, abituate a interrogarsi su come immaginare e costruire un modello sociale differente.
La ragazza ugandese si chiama Irene Nakayima, ha raccontato di come è diventata direttrice di produzione, guidando un’ottantina di altre ragazze, di Afripads, società che sta tentando, producendo assorbenti riutilizzabili, di risolvere un problema igienico primario: gestire i flussi mestruali femminili. Dopo di lei è salito sul palco Rustam Sengupta, giovane di un’alta famiglia indiana, il quale dopo il master all’Insead, decide di ritornare nel suo Paese per fondare Boond. Cosa fa? Lampade a energia solare per un posto dove la luce elettrica è ancora da inventare, e dove invece domina il sole: il deserto del Rajasthan. Come Rustam, anche Crispin Murira aveva una carriera spalancata nella finanza internazionale, ma dopo i master ha ripreso la strada di casa, Nairobi. Qui si è inventato un sistema di distribuzione a catalogo che porta prodotti di prima necessità anche nelle zone rurali (e, in Kenia, il termine “rurale” sembra avere contorni diversi dai concetti occidentali), ha fondato Copia Global, e creato una rete di micro-imprenditori nei villaggi. Infine, l’altra ragazza, Lorna Rutto, occhi che brillano ma che restano neri come la notte anche di fronte ai riflettori, racconta di una bambina nata e cresciuta giocando con i rifiuti, in aree dove i rifiuti si erano inghiottiti gli alberi. Non era tanto tempo fa, perché quella bambina era Lorna che, appena più che venticinquenne, oggi ha trasformato quel gioco coi rifiuti in una sfida alla povertà: è uscita dalle baraccopoli e ha fondato Ecopost, società che raccoglie i rifiuti, li ricicla e ne fa pali da recinzione o da segnaletica stradale.
Dopo questa pioggia di scintille, è poi arrivato il tempo razionale dei ragionamenti. E degli interrogativi: come individuare la finanza buona da quella cattiva? Questo genere di progetti, di che finanza ha bisogno? Per contro, quando è possibile definire impact un investimento? E quale impresa può dirsi davvero sociale, dunque meritarsi a sua volta una finanza sociale?
Spunti al dibattito li ha portati Martin Burt, amministratore delegato di Fundaciòn Paraguaya, ex uomo politico del proprio Paese, dove ha portato avanti la battaglia della microfinanza, e che oggi è indicato come una sorta di ambasciatore dell’impresa sociale nel mondo. Tra i concetti chiave, quello di “dignità”, termine che «progressivamente dovrà prendere il posto del termine “finanza”», ha argomentato, evidenziando il problema di quanto ancora sia difficile superare l’egoismo speculativo in certi ambiti. Ma Burt ha espresso fiducia nella possibilità di trovare strumenti e “metriche” capaci di selezionate investimenti e investitori. «Molto deve dipendere – ha detto – dalla destinazione del valore aggiunto di un progetto». È la sfida del futuro, ma di un futuro che sarà social.
La sala, infine, è intervenuta chiedendo aspetti tecnici sugli investimenti e chiedendo lumi sul futuro. «Sarà possibile trovare un equilibrio tra finanza e imprenditoria sociale?»
È la domanda che, in questi mesi, si pongono tutti, dal G8 in giù.
Forse il convegno di Opes non poteva offrire una risposta per tutti. Ma ha dato una dimostrazione del perché ostinarsi a cercarla.
A cura di ETicaNews