2 ottobre 2014 – A che punto siamo con l’engagement degli azionisti nelle società quotate in Europa e negli Stati Uniti? Quali le problematiche, il contesto normativo e le tendenze? A rispondere a questi temi caldissimi arriva un nuovo dettagliato report intitolato “Shareholder engagement in Europe: a review” di Mirova (gruppo Natixis Am) che scatta un’ampia panoramica mettendo a fuoco i driver più importanti.
Il punto di partenza è ovviamente la conferma del ruolo fondamentale dell’impegno di un azionista nella crescita sostenibile di un’azienda. Quando viene meno, può essere soppiantato da imperativi o strategie di profitto di breve termine da parte del management spinto a ottenere solo più ricchezza o potere con la strada più facile ma più pericolosa. Nell’ultimo periodo però, varie forme di engagement stanno prendendo forma nelle diverse aree del mondo. Oggi, questo tema sta guadagnando terreno: gli investitori sembrano prendere più spesso una posizione e, forse la novità più importante, le norme e i regolarmenti a loro favore stanno aumentando.
Purtroppo anche l’engagement, proprio come per lo Sri (Socially responsible investment, vedi Questa la finanza Sri secondo il Forum) e per i green bond (vedi AAA, indentità cercasi per i Green bond), soffre della mancanza di una definizione “legale”. Tuttavia, vi è un ampio consenso all’interno investimento comunità su ciò che costituisce l’impegno degli azionisti secondo la definizione proposta da Novethic: «l’atto, da parte di un investitore, di prendere posizione su questioni Esg, anche chiedendo direttamente alle aziende di migliorare le loro pratiche. Queste richieste sono fatte per mezzo di un processo strutturato che comprende un dialogo diretto con le società e un monitoraggio continuo. Gli investitori possono utilizzare una o più leve a loro disposizione nel caso il dialogo dovesse dimostrarsi insufficiente per indurre il cambiamento. Queste includono dichiarazioni pubbliche riguardanti il processo di coinvolgimento nelle buone pratiche e il suo progresso o la loro mancanza e l’inadeguatezza delle aziende, pratiche extra-finanziarie, azioni di gestione che vanno da un congelamento della posizione di piena disinvestimento, oltre, naturalmente, l’esercizio dei tipici diritti degli azionisti: sollevare questioni nelle assemblee generali, votare contro le proposte della società, dare sostegno o presentare deliberazioni che non vegono da dentro la società stessa».
Ma a che punto siamo in Europa livello normativo? Lo studio di Mirova spiega che l’attuale quadro normativo che gestisce le questioni di Corporate governance ed engagement comporta un combinazione di misure legislative vincolanti, o hard law, e codici di buona pratica, che non sono vincolanti, e quindi soft law. Queste diverse regole sono generalmente stabilite a livello locale, Paese per Paese. Il che spiega in effetti il perché in Europa di pratiche eterogenee e differenti livelli di maturità sul tema tra i vari mercati. A livello della Commissione europea le direttive relative ai diritti degli azionisti sono state destinate principalmente ad affrontare le questioni legate all’esercizio del diritto di voto, al fine di eliminare gli ostacoli dello stesso a livello transnazionale. Per esempio, la direttiva i «diritti degli azionisti” dell’11 luglio 2007.
Il recepimento della direttiva nel diritto nazionale da parte dei Paesi europei ha portato ad un aumento dei tassi di partecipazione degli azionisti alle assemblee generali. In Germania, per esempio, questo numero è aumentato dal 46% al 60% per le società del Dax 30 tra il 2005 e il 2011. Tuttavia, le norme che disciplinano l’esercizio del diritto di voto continuano a mostrare notevole variabilità tra gli Stati membri dell’Unione europea, e l’impatto effettivo della direttiva sui diritti degli azionisti appare ancora molto limitato, data la complessità delle procedure e dei requisiti coinvolti.
In realtà, la Commissione europea ha cominciato a prestare seria attenzione alla questione di engagement degli azionisti solo dopo la crisi finanziaria del 2008. L’analisi delle cause che hanno portato alla catastrofe di allora, ha messo alla luce notevoli carenze in termini di pratiche di governance tra tutti i tipi di aziende, ma soprattutto nel settore finanziario.
Ora è il momento che venga fatto un ulteriore passo in avanti. Mirova sottolinea che una prima proposta è stata pubblicata dalla Commissione europea nel mese di aprile 2014. Il progetto in questione sottolinea la necessità di trasparenza da parte di investitori istituzionali e gestori patrimoniali per quanto riguarda la loro politiche di investimento e di impegno, nonché l’importanza del cosiddetto “Say on Pay”. Le leggi cosiddette “say on pay” sono uno strumento di controllo degli azionisti e degli stakeholder rilanciato dalla crisi in corso. Letteralmente “Dichiara lo stipendio”, il termine “say on pay” si riferisce al tentativo di introdurre maggiori forme di trasparenza sulle retribuzioni di varia natura dei manager di società pubbliche e private. Per ulteriori approfondimenti sul Say on Pay vedi articolo Compensi, il 5% dei soci dice no.
Se adottata in toto, la direttiva fornirà una leva significativa per aumentare l’engagement in Europa. Per ora siamo solo agli albori, con profonde differenze tra Paese e Paese. Italia compresa.
Fabrizio Guidoni
A cura di ETicaNews