3 dicembre 2014 – «Il mondo dell’energia sta cambiando e la sostenibilità non è un fattore univoco, ma va rimodulato e adattato di volta in volta in base alle mutazioni del mercato». Marina Migliorato, responsabile Sustainability di Enel, esordisce così per spiegare a ETicaNews come la strategia Esg del gruppo elettrico si sia sviluppata, ben prima della crisi partita con il fallimento di Lehman Brother’s nel 2008. In questo percorso, Enel ha adottato strategie che la pongono tra le poche best practice italiane, in termini di remunerazioni legate ai risultati di Csr. L’orizzonte, certo, non è dei più brillanti (vedi l’articolo introduttivo di questa serie di approfondimenti “Caro manager … ti pago sui risultati etici“), ma qualcosa «sta cambiando», dice Migliorato, e stringere le relazioni con gli stipendi aiuta «il passaggio culturale».
Dunque, qual è la genesi di questo cambio di mentalità in Enel?
L’argomento sostenibilità è ricompreso nel piano strategico da quando Enel, nel 2007, ha cominciato a considerare le questioni non finanziarie non solo come meri fattori di comunicazione, ma anche come driver per la creazione di valore, fondanti la strategia dell’azienda. È una mentalità che oggi permea tutto il gruppo. A seguito della grande crisi dei subprime nel 2008 anche gli analisti hanno scoperto che una parte importante del valore creato dalle aziende dipendeva da come pianificavano, gestivano, implementavano nei processi e rendicontavano i fattori Esg. Secondo il Dow Jones Sustenaibility Index per le società dell’S&P 500, il valore era creato per l’80% da fattori economici finanziari e solo per il 20% da elementi Esg. Nel 2010 il rapporto si è capovolto. Ciò ha costretto in molti casi a ripensare i modelli di business. La sostenibilità ha iniziato a fare il suo ingresso nei piani industriali, nel monitoraggio dei dati e nei processi aziendali. La remunerazione dei manager è una delle leve fondamentali per far capire a loro e a chi condivide le politiche di incentivazione, che qualcosa sta cambiando.
Per questo voi legate le politiche di incentivazione ai manager ai criteri Esg?
Se la retribuzione dipende dalla performance nel breve, il segnale che si dà ai manager è che l’incentivo viene corrisposto solo se aumenta il margine aziendale. Ma se si lega la retribuzione anche a fattori non finanziari, come la gestione ambientale degli impianti o aspetti legati alla sicurezza sul lavoro dei colleghi e dei fornitori, si sta dicendo in modo inequivocabile che si viene premiati se si gestisce in maniera corretta l’implementazione di questi fattori. È una strada che in Enel abbiamo intrapreso cambiando la strategia nella gestione della sostenibilità come elemento chiave per creare valore nel medio lungo periodo. E l’incentivazione economica legata alla gestione dei fattori Esg è sicuramente un segnale molto forte per il necessario cambiamento della cultura manageriale.
In dettaglio, come funziona la politica degli incentivi? Quanta parte della retribuzione dipende dai fattori di sostenibilità?
Operiamo in 32 Paesi e in business diversi, la leva dell’incentivazione sui fattori Esg deve necessariamente essere declinata in base alle famiglie professionali, alle varie aree geografiche e ai target attesi, a seconda dei ruoli e delle funzioni. Per esempio, chi gestisce la sicurezza in azienda, avrà una grandissima parte della sua retribuzione legata ai criteri Esg, anche fino al 40 per cento. Così le persone che gestiscono management ambientale, hanno una parte variabile molto ampia legata a elementi di sostenibilità. Tutte le prime linee, compreso il ceo, hanno in ogni caso una parte della retribuzione variabile che dipende da elementi non finanziari.
Diceva che però la sostenibilità è un po’ nel dna di tutto il gruppo.
Stiamo lavorando molto per migliorare sempre più: in tema di diversità, per l’inclusione non solo delle donne, che nel Cda sono il 30% contro un obiettivo prefissato del 20%, ma anche di persone con età, culture, abilità differenti. E anche il target della diversità di sicuro entrerà nella questione retributiva: lo stipendio di alcuni sarà cioè legato a fattori di implementazione della diversità all’interno dell’azienda. Stiamo andando avanti, anche perché siamo convinti che i fattori Esg non possano essere sempre gli stessi: sono legati alla contigenza, al luogo, al mercato che cambia…
Cosa può fare l’Italia per migliorare la sua attenzione in tema di Esg?
Se le grandi aziende italiane spesso non hanno ancora consapevolezza dell’importanza di queste tematiche, le pmi hanno nel dna i fattori Esg. Parlo di quei produttori di qualità italiana che sono competitivi sui mercati internazionali anche perché badano all’inclusione sociale, usano criteri di produzione attenti all’ambiente e al rispetto delle persone; fanno leva cioè su criteri Esg per creare valore. Poi c’è un elemento più concreto che è la Direttiva dell’Unione europea sui non financial statement che dovrà essere recepita nell’ordinamento italiano nei prossimi due anni e che rende obbligatorio per tutte le grandi aziende la rendicontazione nel proprio Bilancio Consolidato degli aspetti non finanziari. La mia speranza è che l’Italia si ponga come leader: cultura e norme ci aiutano, tutto sta a partire. Ci sono decine di statistiche che dimostrano come le performance delle aziende che integrano questi fattori nel business siano migliori: prenderne coscienza è il primo passo per uscire dalla crescita zero.
Laura Magna
A cura di ETicaNews