3 aprile 2013 – Tra fine anni 90 e inizio anni 2000 promosse niente meno che il primo indice etico europeo, Ethical Index Euro. Due anni e mezzo fa, insieme ai britannici di Ftse, ha lanciato il primo indice di sostenibilità di Borsa Italiana, Ftse Ecpi Italia Sri Index. E sul suo sito offre notizie e dati dal mondo della finanza Sri, compresi quelli sulla vasta famiglia di indici Esg (environmental, social and governance) che oggi propone. Stiamo parlando di Ecpi, società di analisi e valutazione della sostenibilità applicata all’investimento finanziario, una delle prime agenzie di rating etico sorte in Italia e in Europa. Che dal 2006 può vantare per i suoi processi la certificazione Iso9001.

Anche se «al momento Ecpi non fornisce servizi di supporto all’engagement», dichiarano Aldo Bonati e Camilla Bossi, del team di ricerca Esg (sia l’uno sia l’altra si possono trovare su Twitter e i loro “cinguettii” sono stati ripresi anche da Re-tweET, la nostra rubrica settimanale dei tweet più “sostenibili”), la società in tutti questi anni ha maturato un’importante esperienza delle dinamiche collegate a iniziative di azionariato attivo. E, soprattutto, di cosa lo può rendere uno strumento davvero efficace e incisivo a disposizione degli investitori responsabili.

Quanto è importante l’engagement all’interno di una strategia d’investimento socialmente responsabile?

Dipende dalla strategia dell’investitore. Se è, ad esempio, di non investimento in società che sono contrarie ai suoi principi etici, l’engagement può non essere rilevante. Se, invece, la strategia è quella di supportare le società in cui investe a comprendere determinati elementi legati alla responsabilità sociale e quindi la necessità di un cambiamento, allora sì, è importante. In ogni caso provare a ingaggiare le società e dialogare con loro è sempre meglio che escluderle tout court. Anche perché questo approccio, oltre che di dire la propria opinione, permette di imparare.

Quanto, allora, può essere qualificante per un investitore responsabile attivare iniziative di engagement?

È piuttosto qualificante. Tuttavia l’investimento sostenibile, come recita la definizione che ne dà la Global Sustainable Investment Alliance (2012 Global Sustainable Investment Review, pag.4, ndr), è un concetto piuttosto ampio, per cui le varie strategie di investimento Sri possono sia prevederlo, sia non prevederlo.

Nella vostra esperienza, quale tipologia di investitori è più attenta all’engagement?

In Italia forse i fondi pensione. Il fatto che le loro decisioni di investimento abbiano un maggior riscontro pubblico, nel senso che la base degli iscritti ne ha comunque informazione, li incentiva di più rispetto ad altri investitori istituzionali. Fra le società di gestione, c’è un’unica realtà (Etica sgr, ndr) che lo ha strutturato in modo robusto e lo comunica in modo trasparente. A livello retail, invece, è abbastanza inesistente. Non è che in Italia non si faccia engagement, ma prevalentemente non su temi di carattere Esg, a parte la governance, e non con le modalità e gli obiettivi che sono tipici dell’azionariato attivo com’è inteso dagli investitori responsabili. Manca una cultura diffusa in questo senso.

In questi anni vi sono giunte da parte di investitori richieste relative all’engagement? Se sì, come vi venivano rivolte, cioè su quali elementi o a partire da quali situazioni?

Non sono giunte molte richieste, per la verità. Qualcosa dai fondi pensione. Ne abbiamo poi discusso con una società di gestione per capire quale tipo di informazioni sia necessario approfondire come base su cui sviluppare un’attività di engagement. E con un’altra, estera, abbiamo parlato dell’ipotesi di realizzare una piattaforma di engagement comune.

Quali sono le maggiori differenze in quest’ambito tra l’Italia e l’estero?

Rispetto all’estero, la diffusione dell’engagement da noi è ancora bassa: il rapporto è circa di uno a dieci. All’estero non è che sia sempre scontato che un investitore che utilizza criteri Esg faccia anche engagement: resta un servizio aggiuntivo. In determinati Paesi, tuttavia, come Francia, Inghilterra e Paesi nordici, e per quanto riguarda i fondi pensione, ormai lo si dà in effetti per acquisito, come fosse uno standard: lì lo fanno praticamente tutti, nei mandati di gestione viene chiesto, perché i fattori Esg rientrano in un’ottica di investimento che intende creare valore nel lungo periodo. In Europa l’engagement è percentualmente più diffuso che negli Usa, dove però riguarda masse gestite più consistenti. Ci sono anche service provider specializzati sui servizi di engagement.

Una cosa assolutamente da fare in una strategia di azionariato attivo? E una, invece, da non fare?

Non si dovrebbe andare dalle società pretendendo di avere in mano la soluzione ai problemi. L’engagement è un percorso, che mira a creare una relazione con la società: l’obiettivo è lavorare insieme al management della società, per esserle in qualche modo d’aiuto, quasi a livello consulenziale, per identificare soluzioni intelligenti e realizzabili. Da fare assolutamente, invece, è studiare, prepararsi molto bene. Si tratta spesso di questioni molto complesse, per cui è necessario presentarsi agli incontri con la società dimostrando di essere preparati e di conoscere l’interesse che la società stessa può avere ad avviare determinati cambiamenti: più che dire alla società “cambia perché lo voglio io”, è meglio dire “cambia per questi motivi, è nel tuo interesse”.

Andrea Di Turi @andytuit

 

A cura di ETicaNews