16 luglio 2014 – Tradurre il cambiamento climatico “in soldoni”. È quanto ha cercato di fare il report “Risky Business”, un progetto bipartisan messo in piedi – tra gli altri – dall’ex sindaco di New York Michael Bloomberg, dal miliardario Tom Steyer, e da Henry Paulson, ministro del Tesoro dell’amministrazione Bush.
Con una tesi di fondo che può suonare paradossale: il vero “rischio d’impresa” è non fare nulla contro i gas serra, perché per garantire un business davvero sicuro è indispensabile intraprendere comportamenti ecofriendly e fare investimenti per ridurre l’impatto ambientale.
Si tratta del primo studio che combina diverse evidenze scientifiche di un numero molto ampio di ricerche, esaminando gli effetti cui le imprese si espongono se non ridurranno radicalmente le proprie emissioni di carbonio, e cercando di combinare gli scenari ritenuti più probabili con eventualità più remote, ma a costi potenzialmente più elevati.
Il report – che si concentra sugli Stati Uniti – si focalizza su un settore particolarmente coinvolto dal rischio climatico: proprietà immobiliari e infrastrutture situate lungo la zona costiera. È stato stimato, per esempio, che nell’area del Golfo del Messico, entro il 2030 i danni agli edifici dovuti a tempeste o all’innalzamento del livello del mare ammonteranno dagli attuali 2 a 3,5 miliardi di dollari l’anno. Con importi ancora più alti se gli uragani dovessero farsi più frequenti.
Ma anche l’innalzamento delle temperature nelle aree interne del Paese non è privo di costi industriali: in particolare influirà sui consumi elettrici, sulle coltivazioni, ma potrebbe avere esternalità negative persino sulla produttività, se nelle regioni del Midwest e del Sud si registrassero diversi mesi sopra i 35°C.
A queste condizioni climatiche, tali zone potrebbero subire perdite dei raccolti di soia, cotone, grano e mais tra il 50 e il 70 per cento. Perdite che, a onor del vero, sarebbero in parte compensate dalla capacità di adattamento di tecniche agricole più avanzate e dalla disponibilità di aree coltivabili in nuovi territori ora inadatti, per esempio nel Nord degli Stati Uniti. Ma anche se il sistema tenesse a livello nazionale (o globale), le piccole imprese che basano il proprio reddito su coltivazioni a rischio potrebbero esserne travolte.
L’iniziativa Risky business ha quindi come primo intento quello di far suonare un campanello d’allarme sull’opportunità di inserire il fattore climatico tra gli aspetti che guidano le scelte di business delle aziende di tutti i settori, comprese utility e finanza. E di farlo in un’ottica di lungo periodo, perché si tratta di cambiamenti strutturali.
Ma la ricerca mette anche in evidenza che non è troppo tardi per invertire la rotta, e si conclude con una call to action al sistema imprenditoriale per intraprendere in fretta interventi di riduzione della propria carbon footprint, investendo ora per garantirsi un futuro economico più stabile domani. Un monito che, proprio perché tradotto in cifre, si spera raccolga maggior consensi presso il mondo produttivo.
Emanuela Taverna
A cura di ETicaNews