09/12/2014 – Consumatori, opinione pubblica e investitori sono sempre più attenti ai comportamenti delle aziende: a come portano avanti il business e a quali impatti hanno su ambiente e società. Eppure, le società, quotate o meno, puntano ancora poco sulla sostenibilità nella loro comunicazione corporate online per differenziarsi sul mercato e per limitare possibili rischi reputazionali. È questo lo stato dell’arte che emerge dalla ricerca Webranking by Comprend che ha analizzato 69 società quotate in Italia tra le 100 a maggiore capitalizzazione e 43 grandi aziende non quotate.
AAA CERCASI SOSTENIBILITÀ NEI SITI CORPORATE
L’analisi sulle società quotate, condotta dalla società di consulenza strategica Lundquist in collaborazione con gli esperti di comunicazione digitale di Comprend (gruppo Halvarsson&Hallvarsson), è ormai alla diciottesima edizione a livello internazionale (con 800 società analizzate) e in Italia è giunta alla sua tredicesima edizione (vai all’executive summary dell’analisi sulle quotate). Quest’anno, per la prima volta, l’indagine è stata allargata anche alle principali aziende non quotate (valutate tramite un protocollo dedicato, vai all’executive summary dell’analisi sulle non quotate).
L’obiettivo della ricerca è misurare «i fondamentali della comunicazione corporate e finanziaria e l’apertura al dialogo sui canali digitali» stabilendo quanto il sito corporate venga considerato uno strumento chiave per comunicare e attrarre investitori. In altri termini, partendo dalle esigenze degli stakeholder, si è indagato quanto la comunicazione digitale delle aziende effettuata tramite il sito web soddisfi le principali richieste della comunità: dalle informazioni finanziarie alla governance, dalla strategia alla sostenibilità, dall’employer branding all’integrazione dei social media, dal design responsive del sito ai contenuti.
Tra i vari aspetti presi in considerazione, la sostenibilità è sicuramente uno degli ambiti più trascurati sui siti web corporate sia per le quotate sia per le non quotate. Tra le quotate, poco più della metà delle aziende valutate presentano un bilancio di sostenibilità (contro il 94% tra le maggiori 100 aziende a livello europee) e una su quattro non presenta alcuna informazione di sostenibilità (eccetto il codice etico). Tra le non quotate, due società su tre presentano il codice etico ma solo 7 in complesso presentano il bilancio di sostenibilità 2013.
Analisti e investitori chiedono non solo dati completi sulla situazione aziendale, ma anche informazioni in grado di aiutarli a capire le prospettive dell’azienda. Inoltre, negli ultimi tre anni, all’interno del questionario dedicato a investitori e giornalisti finanziari, è cresciuta l’importanza delle informazioni di sostenibilità. «La nuova direttiva europea sulla trasparenza non finanziaria – rileva James Osborne, responsabile Csr di Lundquist – spingerà sempre più le aziende a pubblicare informazioni inerenti a tematiche come diritti umani, anti-corruzione, diversità e ambiente. Gli stakeholder si aspettano maggiore trasparenza e diventa quindi fondamentale per le aziende poter spiegare in che modo la sostenibilità crea valore a supporto del core business».
QUOTATE, BRAVE SOLO PER OBBLIGO
Le aziende quotate non escono vincenti dallo stress test di Lundquist. Solo venti su 69 superano il test, ossia totalizzano un punteggio superiore alla soglia indicata per una buona comunicazione digitale; all’estremo opposto, altre venti non presentano i contenuti minimi richiesti dal mercato. Le migliori performance le mettono a segno Eni, Snam e Telecom. Sul fondo della classifica troviamo diversi nomi del lusso, come Moncler, Ferragamo e Tod’s ma anche società finanziarie come Fineco, Anima e Azimut.
Le grandi aziende quotate sono brave a comunicare le informazioni legate alla disclosure obbligatoria: risultati finanziari, performance azionarie e governance. Al contrario, la sostenibilità è una delle aree in cui ancora esiste una maggiore differenza rispetto alle performance europee. Inoltre, «nonostante alcune società italiane abbiano prodotto report integrati, che combinano informazioni finanziarie e non finanziarie – si legge nell’analisi – in generale queste ultime vengono ancora poco valorizzate». Risultati scarsamente lusinghieri sono stati registrati soprattutto dalle neo quotate: la sostenibilità «non è considerata un fattore chiave per differenziarsi e attrarre investitori – scrive ancora la ricerca – nessuna azienda presenta un bilancio di sostenibilità e solo quattro il codice etico». Le matricole rimangono indietro anche sul fronte della governance: mancano informazioni chiave come la remunerazione, presentata da una sola società, e informazioni dettagliate su consiglieri e management.
Le altre aree in cui le aziende quotate si mostrano carenti nella comunicazione attraverso il proprio sito corporate sono la strategia, l’employer branding e i social media. Per capire le prospettive dell’azienda il mercato richiede informazioni come le prospettive di crescita, gli investimenti in innovazione, la presenza geografica e il posizionamento di mercato ma, rispetto alle controparti europee, le italiane non soddisfano queste richieste: il 55% delle società non presenta la strategia e l’83% non fornisce informazioni né su obiettivi finanziari né su come raggiungerli. Allo stesso tempo l’employer branding non sembra essere strategico nello sviluppo delle aziende: un quarto del campione italiano analizzato non presenta l’azienda ai potenziali candidati e quasi la metà non informa sulle posizioni aperte sul proprio sito. Nel complesso, l’employer branding è una delle aree che ottiene il risultato più basso nonostante sia la sezione che conta il maggior numero di visite all’interno dei siti istituzionali e sia fondamentale per comunicare con un pubblico più ampio. Infine, sebbene in miglioramento di 7 punti percentuali rispetto allo scorso anno, le performance legate ai social media e motori di ricerca non superano il 30% del punteggio massimo, ed è aumentato il divario rispetto alle performance europee.
NON QUOTATE, DELUDONO FOOD E MODA
Le tre società che si distinguono ai vertici della classifica delle non quotate sono Edison, Sea e Sace. Mentre delude il made in Italy: moda e food rimangono fanalini di coda. Barilla, per esempio, compare solo in quindicesima posizione, Ferrero in ventitreesima. Ermenegildo Zegna è ventinovesimo, seguito dal Gruppo Coin e, più sotto, da Calzedonia. Chiudono la classifica Dolce & Gabbana e Gruppo Armani. «Il settore del fashion e del lusso italiano è uno dei più riconosciuti a livello internazionale, ma è anche stato uno dei settori che ha subito importanti crisi a livello di reputazione per la sua sostenibilità sia in termini finanziari sia di impatto sulla società – rileva nella ricerca Valentina Orlandi, analista Webranking –. Tuttavia, le aziende del settore non hanno migliorato la trasparenza della propria comunicazione e nessuna sembra più puntare sulla sostenibilità per differenziarsi».
Sebbene le società non quotate non abbiano gli stessi obblighi informativi delle società quotate, devono rispondere alla crescente richiesta di «presa di responsabilità» da parte dei clienti e della comunità interessati a conoscere cosa sta dietro a prodotti e servizi. In quest’ottica, una maggiore trasparenza, non solo permette di rispondere alle varie richieste degli stakeholder, ma anche di differenziarsi dai concorrenti per competere sul mercato. Se l’attenzione al mobile, ai social media e alla presentazione dell’azienda sono paragonabili a quelle delle aziende quotate, risultano invece deboli le aree sulle informazioni finanziarie, sull’employer branding e appunto la sostenibilità.
«Sono una minoranza – si legge – le aziende considerate nella ricerca che puntano sulla sostenibilità per differenziarsi sul mercato e per limitare possibili crisi reputazionali. Se due società su tre presentano il proprio codice etico, solo sette presentano il proprio bilancio di sostenibilità 2013». L’analisi entra poi nel dettaglio di due sottocategorie di aziende non quotate: le aziende con azionariato pubblico e le imprese che hanno mostrato interesse per la quotazione. Nel primo caso, tutte presentano un codice etico ma solo due su nove il bilancio di sostenibilità 2013. Insufficiente la governance: sei su nove pubblicano la composizione del consiglio di amministrazione e i manager che guidano l’azienda, ma solo la metà include un curriculum con le esperienze professionali. Nel secondo caso, le imprese che hanno mostrato interesse per la quotazione, quasi tutte presentano un codice di condotta, ma solo cinque su undici presentano un bilancio di sostenibilità sul proprio sito. Riguardo alla governance, sette su undici presentano il management e i membri del consiglio di amministrazione. Né l’azionista pubblico né l’interesse alla quotazione sono fattori che hanno spinto la comunicazione corporate online.
Elena Bonanni
A cura di ETicaNews